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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Michele, giorno 38


Audentes Fortuna Iuvat




🎧Ascolta Michele:



La gioia e la commozione mia e della mia famiglia dall’altra parte dello schermo del telefono era palpabile. Papà non riusciva a credere che volessi davvero prendere in mano le redini del Molino. Chiaramente avevo bisogno di lui, della sua guida ma è vero che ho passato ore in laboratorio fin da bambino. Anche quando la voglia era totalmente assente dalla mia coscienza, i gesti di lui che impastava e dava da mangiare a quelle macchine magiche che restituivano del pane genuino e gustoso, mi si incidevano nella carne.

In tutti questi giorni, in balìa dei miei pensieri e delle mie emozioni, cucinare mi rilassava, mi donava chiarezza e lucidità mentale. Quale gioia proverei nel mettere un po’ di queste emozioni cimentandomi a cucinare per gli altri? Impastare per loro il pane, alimento base dell’umanità da tempo immemore. Sarebbe un onore e il giusto mio contrappasso per ripagare di tutta la rabbia che ho sparso fino ad ora.

Chiaramente il magma incandescente che ho portato per anni dentro al mio cuore non si raffredderà dall’oggi al domani, ma a ogni eruzione posso imparare a trasformare la lava in forza cinetica, per impastare e massaggiare la farina con acqua e lievito e trarre quindi l’oro dal piombo. Terapeutico per me, utile e amorevole per gli altri.


A livello pratico c'è molto da fare.

Anzitutto andava preparato il negozio per la riapertura. Confesso che in tutto questo tempo ho pulito quasi per finta passando lo straccio giusto sulle mensole senza nemmeno rimuovere le bottiglie e gli altri alimenti dagli scaffali.

Poi ci sarebbe stato da ordinare le materie prime e qualche leccornia direttamente da Teglio e dal pastificio di Zio Peppe. Infine l’atto alchemico vero e proprio: la preparazione, la lievitazione e la cottura del pane.

Naturalmente ho cominciato da subito a muovermi per far sapere ai clienti che avremmo riaperto il Molino da lì a poco. Ho appeso cartelli fuori dalla porta del negozio e creato post sulla pagina Facebook.

Poi ho dedicato tutta la giornata alla pulizia meticolosa dei pavimenti e delle mensole, spostando tutti gli oggetti e spolverando ogni singola bottiglia. Dopo la spolveratura era la volta della pulizia dei macchinari, che ho tirato a lucido sotto la guida di papà al telefono.

Le risate che ci siamo fatti durante le pulizie… Mi prendeva in giro dandomi del pistola con quel suo fare un po’ burbero a ogni mio errore. Io facevo finta di arrabbiarmi, o forse mi arrabbiavo sul serio ridendo. Il fuoco, alla fine, fa comunque parte di me.

Sembravamo una coppia di amici che non si vedono da anni e nell’incontrarsi di nuovo abbiano ricominciato esattamente da dove avevano lasciato. Oltre a Elia, questa quarantena mi ha fatto ritrovare un altro grande amico e non solo un padre.

Domani dovrebbe arrivare il carico con le farine e tutto l’occorrente per iniziare a produrre il pane. Per oggi, il mio compito è finito.

Guardavo i macchinari con quel nome che solo ora sembra carico di significato. Pare siano tutti di marca tedesca. Papà si è sempre fornito da loro, anche Zio Peppe ne aveva qualcuna delle loro macchine. Sia lo zio che papà si sono sempre trovati da dio in tutti questi anni.

Fortuna era il nome della ditta che li produceva.


L’etimologia delle parole è sempre affascinante. Vocaboli che ripetiamo meccanicamente di colpo assumono un significato vero, tangibile, profondo e non solo simbolico. Il termine latino fortuna deriva da fors, fortis che vuol dire sorte ed ha la stessa radice di ferre, che indica portare. Quindi fortuna può voler dire ciò che porta la sorte.

Quelle macchine sono lì da quando sono nato. Il negozio è stato aperto che non avevo nemmeno un anno. È come se quella parola fosse stata scritta per me. Come se mi stesse aspettando. La sorte che sulla sua ruota gigante ha completato un ciclo immenso. Mi sono inserito anche io tra i suoi ingranaggi facendole da nuovo perno centrale e permettendole di riprendere un altro nuovo ciclo, in cui potevo mettermi al servizio di un qualche proposito più alto e più grande.

Mi tornano alla mente le parole di Marco Aurelio. Da bambino mi piaceva perché era il vecchietto adorabile del film Il Gladiatore, ma all’Università ho imparato ad amarlo per l’incredibile profondità, lucidità e attualità che dimostrava già migliaia di anni fa.

Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?