Michele, giorno 36:
Edipo Me
Mi sono alzato presto questa mattina. La vibrazione nuova che sentivo abitare il mio corpo non mi ha quasi permesso di chiudere occhio questa notte.
Ho preparato tanto caffè, l’ho bevuto meccanicamente, con la testa proiettata già verso Milano. Ho dato da mangiare a Catone e mentre lui masticava con avidità invidiavo un po’ la sua assenza alla vita. O forse la sua totale presenza. Lui ha perso il suo padrone, ma ne ha facilmente trovato un altro che gli dà mangiare e un po’ d’affetto. Il tutto fluidamente, senza affanni psicologici. È così e basta.
Ho tirato fuori la mascherina, i guanti e la mazzetta da un milione di lire che avevo trovato nella busta di plastica. Ho disposto tutto sul tavolo della cucina come per osservare meglio il mio arsenale. Non ero mai uscito se non per andare al Molino o fare la spesa. Ora stavo andando a prendere un treno per andare a sbattere in faccia la mia esistenza all’uomo che mi ha rifiutato come figlio. Ho provato una fatica indicibile ad uscire di casa e ad avviarmi verso la stazione, come se stessi per compiere un’impresa titanica il cui peso mi è gravato tutto addosso in un solo secondo.
Ho fatto il biglietto e aspettato. Il treno era in ritardo. Un fatto per niente eccezionale sulla tratta Lecco-Milano, ma questa mattina pareva aggiungere gravità al macigno che avevo nel petto.
Quarantacinque minuti dopo l’orario stabilito è arrivato il convoglio. Sono salito e mi sono sistemato al finestrino. Nella carrozza c’erano solo un uomo e un bambino seduti vicini, entrambi con mascherina. Farà male, papà?
No, Elia, è come se ti pizzicassi io sul braccio, senti.
Ahi!
Ahah, visto? Adesso non senti già nulla o sbaglio?
Si è vero! Poi prendiamo qualcosa a mamma quando torniamo?
Si, certo.
Elia… Probabilmente stavano andando a fare un qualche tipo di vaccino o esame del sangue. Ho sempre odiato gli aghi, io. Da bambino Amos mi aveva detto esattamente le stesse parole di quell’uomo per rincuorarmi e calmarmi, mentre andavamo a fare un richiamo di un vaccino. E la madre del piccolo Elia? Era a casa? O in ospedale in cura?
Non lo scoprirò mai. Perché due stazioni più avanti sono sceso.
Che cosa stavo facendo? Dove stavo andando? Perché?
Sono rimasto così a fissare il verde degli alberi per un’ora o più. Il peso dell’impresa mi aveva totalmente schiacciato sotto di sé. L’amorevole padre che dava coraggio al bambino mi ha riportato alla mia infanzia, un’infanzia in cui Richard non esisteva. La sua ombra ha cominciato a oscurare la mia vita a sei anni, dopodiché fu tutta una guerra inconscia, una ricerca, un pianificare la mia vendetta che solo oggi si stava compiendo.
L’uroboro. Il ciclo infinito. Non stavo forse ripetendo una storia antica di migliaia di anni? Non stavo forse tracciando un cammino già battuto innumerevoli volte? Forse è tutta un’illusione. Forse è questo, di nuovo, il canto delle Sirene così seducente e letale. Ho provato una strana sensazione di atavica famigliarità con tutta questa storia, la mia storia.
In un lampo mi venne alla mente Sofocle, Freud e tutta la banda che suonava le sue note da sempre, per indicarmi la via maestra.
Io sono come Edipo.
Stavo andando incontro ad una sorte già scritta da tempo immemore. Avevo già vinto l'enigma della sfinge, avevo scovato l'identità di quel volto d'ombra che era mio padre. Stavo quindi andando a prendere la corona sulla mia Tebe, ma a che prezzo? Mi avrebbe portato alla mia disfatta totale finché anche i miei figli mi avrebbero maledetto? No. Non voglio finire così. Non voglio essere la pedina di un gioco il cui risultato è sempre stato scritto e chiaro. Devo interrompere il ciclo senza tempo. Tranciare il serpente che si morde la coda e liberarlo dalla sua autofagia senza fine.
Ci sono vari elementi che non avevo preso in considerazione. Io mia madre la posseggo, sì. Mi ha dato la vita, per ben due volte. E altrettante volte mio padre viene ucciso. Abbandonato prima dall’oggetto del suo amore che si ribella al suo volere despota e ucciso dall’amore mai esistito di un figlio che nei suoi confronti ha provato solo rancore e rabbia.
Sono stato cieco in tutti questi anni. L'enigma della Sfinge era più intricato, più sottile di quello che pensassi. La risposta ce l'ho sempre avuta davanti ai miei occhi, senza volerla vedere. È tempo di riacquistare la vista e spezzare l'incantesimo di Sofocle.
Mentre salivo sul convoglio che mi riportava verso casa, l'ombra piano piano si dissipava, il macigno sul mio petto si sgretolava e io riuscivo di nuovo a vedere.
Che senso ha sputare in faccia a Richard la mia esistenza? In fondo non è lui che mi ha cresciuto. Non è lui che mi ha nutrito. Non lui che mi ha sgridato quando doveva, non lui che mi ha abbracciato quando ne avevo bisogno.
Non lui. Ma Amos.
L’uomo che mi ha accettato, nonostante non avessi il suo sangue, prima ancora che nascessi. L’uomo che mi ha vestito e nutrito per tutti questi anni. L’uomo che è riuscito a conquistare mia madre, la sua dea, con devozione, perseveranza e rispetto. L’uomo che solo ora mi ha fatto capire cosa vuol dire essere davvero uomo.
L’uomo che ha tutto il diritto di essere chiamato papà.