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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Sofia, giorno 30


Preludio




Mi hanno chiamata dal Policlinico stamani per dirmi che avevano ritrovato la borsa di pelle. Sono andata a prenderla con Ramòn e quando sono tornata ho trovato un cartello sul citofono che avvertiva il palazzo della morte del signor Ceni.

Chissà cosa c'è nella sua busta di plastica.

Ho incrociato la mamma di Caterina per le scale

Alla sua età è normale andar via, ma morire soli così, è una brutta cosa.

Le ho fatto le mie condoglianze e sono tornata nel mio mausoleo.

Ho svuotato la borsa di pelle. Dentro c'era un cambio di pigiama, un golf, un libro e l'ennesima frecciatina del signor Lazzareschi, l'ultima. Aveva lasciato un biglietto per me.

Sono ancora al piano di sopra Sofia, solo qualche metro più su. Se suoni il pianoforte ti sento.







Il un baleno il cuore mi si è stretto nel petto e intorno a me la stanza è diventata piccola, piccolissima, tanto che mi sembrava di non poter respirare.

Ho visto la slavina venirmi in contro, potente e inarrestabile, carica di sensi di colpa, rimorsi e tristezza.

Ho pensato che il mondo intero stesse tramando contro di me, che tutti, ma dico TUTTI, si fossero messi d'accordo per ferirmi. Mi sono lasciata cadere sul letto, ho affondato la faccia nel cuscino e ho pianto fuori tante lacrime di rabbia. Poi è arrivato Ramòn, che al solito pensava che fosse un gioco e ha cominciato a scavare per stanare le mie lacrime e leccarle via.

Mi sono girata a pancia in su e ho cercato di mettere a fuoco il soffitto di legno sopra di me attraverso lo strato d'acqua che ricopriva i miei occhi.

Respira Sofia, calma.

Tutte le pareti di questa casa sono rivestite di legno. È stato nonno Karl a rivestire i muri di questa casa di legno. Voleva che le pareti risuonassero come dentro un teatro. I vicini non si sono mai lamentati e lui si è sempre esercitato, anche la notte.

Il suo motto era Fammi sentire come suoni e ti dirò chi sei, la musica non mente, mai.

Venivano a studiare con lui da tutta Italia. Era famoso per essere incredibilmente severo, ma altrettanto giusto.

Il papà ha conservato molte cose di lui. Dalle pipe, agli occhiali, alle lettere e ai diari preziosissimi del periodo della guerra, tra cui c'è anche quello di Brigitta che avevo lasciato a casa del Lazzareschi.

Io ho un solo e magnifico ricordo di lui, di quando suonai il pianoforte, per la prima volta.

Ho sempre avuto tanta curiosità per quel grande scatolone nero lucido che avevo in camera. Ricordo che papà ogni tanto lo apriva e lo faceva cantare. Ma io piccola com'ero riuscivo solo a vederlo da sotto e guardavo affascinata e intimorita le teste dei due leoni che stavano alla base delle gambe su cui poggiava la tastiera. Ero sicura che facessero la guardia.

Sono cresciuta pensando che non sarei mai diventata abbastanza alta da vedere cosa stava lì sopra. Ho sempre creduto che quello scatolone nero lucido fosse una cosa troppo preziosa che solo i veri virtuosi potessero vederci dentro. Papà ogni tanto faceva sparire le mani nelle sue fauci e sentivo venir fuori la musica. Era un grande mistero e la mia testolina immaginava mondi incredibili al di sopra di quei due leoni.

Un giorno, avevo 4 anni, nonno Karl mi prese in braccio e mi mise in piedi su panchetto. Poi aprì il pianoforte. Io vidi per la prima volta il panno rosso che copriva la tastiera e nonno Karl lo arrotolò, piano piano, andando a scoprire tutti quei tasti bianchi e neri. Ricordo che non finivano più ed erano così brillanti, così tanti, così ipnotici. Era più bello di qualsiasi cosa avesse immaginato la mia testa di bambina.

Capii che quella scatola nera aveva davvero una bocca e tutti quei tasti erano i suoi denti.

Quella è la lingua? Chiesi al nonno indicando il panno rosso. Lui rise di cuore e mi disse di sì.

Nonno Karl prese il mio dito indice con la mano e lo appoggiò su un tasto. L'emozione della prima nota.


Ricordo che passammo la mattina a giocare con i denti dello Steinway e fu una magnifica sorpresa scoprire che se lo toccavo a sinistra gli facevo male e a destra invece gli facevo il solletico. Poi nonno tolse le mie mani dalla pianola e suonò qualcosa, così, credo giusto per farmi sentire come si poteva far cantare quella strana creatura, ma io ricordo che il suono che ne uscì fu così travolgente che ebbi le vertigini. Anni dopo scoprì che era il preludio N. 1 di Bach.






Il mio entusiasmo deve aver fatto credere al papà che avevo scelto il mio strumento, la mia via.

Se non fosse stato per mamma che lo tratteneva lui già a 4 anni mi avrebbe mandato a lezione tutti i giorni. Tua madre difendeva il tuo diritto all'infanzia così mi raccontava secondo lei dovevo spettare che tu fossi più grande.

Ha aspettato che morisse per inchiodarmi al piano fino a che non me ne sono andata di casa.

Ho sentito di nuovo la collera montarmi nello stomaco. Se solo papà mi avesse lasciato la libertà di scegliere, io avrei anche continuato a suonare. È stato quando tutto si è trasformato in una rigorosa disciplina a cui non potevo sottrarmi che ho cominciato ad odiarlo. Fino ai 12 anni mi aveva fregata, credevo che tutti i bambini studiassero quanto lo facevo io. Poi ho cominciato ad avere delle amiche al di fuori del mondo della musica e ho scoperto che c'erano tante altre cose che un'adolescente poteva fare, invece che suonare. Il dramma è arrivato quando ho provato a ribellarmi ai piani di papà. Non era stato in grado di gestire una bambina, figurarsi un adolescente!

In quegli anni sono cominciati a volare i ceffoni, le parole pesanti, le punizioni. Più io mi ribellavo e più lui stringeva la corda. La stessa corda che poi mi ha legato le mani impedendomi di suonare. I suoi metodi gli si sono rivoltati contro. Succede sempre così.