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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Sofia, giorno 29


La II° Sinfonia di Brahms




Mi sono svegliata nel cuore della notte sul divano del Lazzareschi. Ramòn dormiva acciambellato tra le mie gambe. Dalle tende della finestra filtrava la luce della luna. Il salotto intorno a me era invaso da una serie di forme astratte tagliate nell'oscurità. Ho riconosciuto la linea della moka sul tavolo. Ho guardato verso la camera del Lazzareschi. La porta era aperta, l'ora della radio-sveglia lampeggiava di un verde acceso nel buio.

Le 04.37 Sono rimasta ipnotizzata a guardare quello strano gioco di luci e colori. Le 4.38.


Non c'era più nessuno in quella stanza, non c'era più nessuno in quella casa e io non avevo più niente da fare lì.

Mi sono alzata, ho riordinato il tavolo, lavando e mettendo a posto le cose che avevo lasciato.

Ho preso le lettere di Giada Brenna e il diario di Brigitta. Poi ho guardato a lungo l'ultimo foglio scritto dal Lazzareschi.

Dentro di me due demoni erano in guerra buttalo via, non ti serve più diceva uno. Tienilo, potrà esserti utile rilanciava l'altro.

Davanti a quel foglio mi sentivo così piccola e ingenua. Era la testimonianza di una serie infinita di bugie e segreti. Papà aveva confidato al Lazzareschi che aveva avuto un'altra donna, che si torturava dai sensi di colpa, che non dormiva la notte. E io che ricordo solo che dopo la morte di mamma lui è partito per un tour, lasciandomi dai nonni.

E se non fosse andato in tournée? Se ti avesse detto un'altra bugia?

Forse c'è qualcos'altro oltre alle lettere con Giada. Magari papà in quel periodo è andato a cercarla e ha scoperto che lei aveva avuto un figlio.

Per quanto ti lasciò dai nonni?

Non so per quanto tempo, ricordo che fu un lungo periodo perché la sera che morì mamma aveva un concerto in Scala con il quale poi andò in tournée.

La sera che morì la mamma: la seconda sinfonia di Brahms.

Era febbraio. Mamma era in ospedale già da due giorni. Papà veniva a prendermi a scuola prima per passare la giornata insieme lei, poi la sera mi portava in teatro con lui.


Mi metteva su una seggiolina dietro le quinte e andava a cambiarsi in camerino. Poi di solito passava a salutarmi prima di andare sul palco e mi riprendeva a fine concerto. Ricordo che quella sera un signore che ogni tanto avevo visto anche a casa venne a dirmi che papà era dovuto andare via e che l'avrei dovuto aspettare lì, che sarebbe tornato.
Piano piano tutti i musicisti andarono sul palco. Al posto del papà c'era un altro signore che non avevo mai visto. Poi entrò il direttore d'orchestra, lungo applauso, e il concerto iniziò.





Ogni tanto qualcuno veniva a chiedermi chi ero e io rispondevo la figlia dello Schneider, così mi aveva detto di dire papà. E allora mi sorridevano e poi si allontanavano di nuovo.

Poi il concerto finì, ci furono gli applausi e un gran viavai di persone e strumenti. Io cercavo tra tutti quegli uomini in completo scuro il mio papà, ma non lo trovavo. Il signore che era stato a casa nostra ogni tanto tornò a dirmi che papà sarebbe arrivato e che dovevo aspettarlo. Io lo aspettai. Subito dopo che il dietro quinta fu liberato dai musicisti l'enorme struttura in legno che circondava il palcoscenico, papà mi aveva detto che si chiamava conchiglia, si ruppe in tanti pezzi e volò verso l'alto tirata da delle funi. Poi cominciò un gran movimento di cavi, impalcature e fari. Anche dall'alto cominciarono a calare dei teli enormi tutti colorati. Ogni tanto qualcuno mi passava accanto borbottando chi è questa bambina? ma nessuno si fermava più a parlare con me.

Il mio stomaco brontolava. Avevo fame e anche sete. Cercai di resistere il più possibile, ma ad un certo punto mi alzai e decisi che avrei cercato dell'acqua.

Ricordo che mi affacciai dietro al fondale e vidi che al di là di quell'enorme telo nero c'era un'altra stanza lunghissima, che sul fondo aveva due gigantesche porte aperte che davano sulla strada. C'erano dei camion parcheggiati fuori e molti uomini che scaricavano casse di legno. Dai portelloni entrava aria ghiacciata. Due giganteschi leoni venivano trasportati da una gru e poi delle colonne venivano fatte rotolare al centro della stanza e una grossa scalinata in mattoni veniva tirata avanti da delle corde. Dietro al fondale c'era l'Egitto, ma non l'acqua. Mi avventurai altrove e aprii una porta pesantissima, salii un infinità di scale e camminai lungo corridoi labirintici. Passai da una sala che era tutta di marmo con un lampadario che era più grande di camera mia. Corsi sul pavimento facendo gli scivoloni e poi di nuovo oltre una porta misteriosa e su per scale e corridoi. Via via che andavo avanti lo sfarzo diminuiva e faceva sempre più freddo, fino ad arrivare in un'altra stanza che era piena zeppa di cavi, lucine lampeggianti e strani robot con tanti bottoni e pulsanti. Quella stanza ronzava, mi sembrava che ci fossero le mosche, ma poi ho capito che era il respiro delle macchine. E via di nuovo per scale e corridoi sempre più grigi. Ogni tanto sentivo un rumore di passi e mi nascondevo. Non potevo farmi trovare perché avevo infranto le regole. Avrei trovato l'acqua e sarei tornata alla seggiolina.



Poi aprii l'ennesima porta e mi ritrovai in una strana stanza dove il pavimento ero fatto di aste di legno che però lasciavano tra loro un vuoto. Ero in graticcia. Guardai giù. Vedevo tutti i piani sopra il palcoscenico. C'erano dei teli mastodontici appesi per aria e tante, tantissime corde che passavano da una parte all'altra del teatro come ragnatele. Poi oltre le scenografie, oltre le americane con i fari, vidi, laggiù, 25 metri sotto di me, la seggiolina che avevo abbandonato. Era lontanissima. Papà mi aveva detto che sarebbe tornato e io invece me ne ero andata. Cercai di ripercorrere la strada al contrario. Mi resi conto di essermi persa e mi prese una gran paura. Camminai con la vista appannata dalle lacrime per non so quanto. Non c'era neanche più nessuno. Ricordo dei corridoi infiniti, bui, e le pareti grezze in cemento armato, e poi ricordo che faceva freddo ed ero stanca e avevo sete e mi mancava la mamma.

Poi sentii la voce di papà e allora urlai e lo vidi correre verso di me con il cappotto sul braccio e la giacca aperta. Era sudato. La prima cosa che fece fu di darmi un ceffone, poi s'inginocchiò davanti a me mi prese il viso tra le mani e mi guardò dritto negli occhi e vidi che piangeva e vidi la paura e io vidi nei suoi occhi che mamma non c'era più.

Ho pensato d'averti perso! Non ti devi allontanare. Non mi abbandonare mai più Sofia.

Ma tu non venivi!

Perdonami, perdonami, mi diceva lui piangendo e con i pollici accarezzava le mie guance per asciugare le lacrime. Non succederà più Sofia, non ti lascerò più. Perdonami.

E mi abbracciò forte, mi prese in braccio e camminò verso l'uscita. Andiamo a casa ora.

Appena fuori dal teatro mi mise giù e vide che stavo tremando.

Ho fame gli dissi e lui guardò l'orologio con sguardo preoccupato.

Dove ti porto a quest'ora? Con la mano si massaggiò le tempie, si stropicciò il naso, sospirò e poi mi prese per mano e ci incamminammo verso un posto da americani, una porcheria, ma fanno hamburger e patatine fritte per tutta la notte. Ti vanno le patatine?

Sì. Ci incamminammo verso San Babila, dove entrai dentro un McDonald per la prima volta.

Fissavo il foglio scritto dal Lazzareschi seduta al tavolo del salotto.

Tuo padre era molto preoccupato per te e faceva di tutto per...

Per fare cosa, papà?

L'ho ripiegato e l'ho messo in tasca.

Ho svegliato Ramòn e siamo scesi a casa del papà. Prima di andar via ho guardato un'ultima volta in camera del Lazzareschi. La radio-sveglia lampeggiava le 5.05.