Traugott

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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Traugott, giorno 35:


Sono il fratello fortunato.



Martedì

Ore 07:20

Fa bene il caffè. Non devo abituarmici, ma questo momento che sembra appeso nel tempo, che sembra pendere fra diversi mondi, fra primavera e estate, fra il silenzio e la ripresa, fra passato, presente e futuro e indeciso in tutti sensi, indeciso persino sulla mia vera identità, il caffè mi fa bene. Non l’ho mai bevuto in questa maniera, con calma, e senza che debba tenermi sveglio durante il lavoro o per altro, ma solo per godere questo attimo di risveglio per me, per vagare con i miei pensieri. Sono contento di essermi alzato presto. Ieri sera sono caduto a letto esaurito, dopo aver pulito per l‘intero pomeriggio la camera e rifatto il letto. Vorrei anche pulire il resto dell’appartamento, ma le mie forze non bastano per progetti così impegnativi. Dovrei anche riprendere gli allenamenti, ma mi manca ancora l’energia. Non c’è fretta. Forse oggi pomeriggio, anche solo per 15 minuti mi metto sulla bici e inizio lentamente. La tosse è andata via quasi completamente, sento però ancora il forte peso nei polmoni. Sarà buono arieggiarli sul balcone.
Volevo fare una piccola colazione. Aprendo il frigorifero, ho notato delle pile di diversi chili di burro.
Mi ci è voluto un attimo per ricordarmi per quale scopo l’avevo comperato, tutto questo burro. Sembra che siano passati secoli. Nel frattempo mi sono passati sopra un treno merci diretto a Milano e una colonna di camion diretti in Germania. La persona alla cassa del supermercato che ha acquistato tutto questo burro è stata un’altra, non solo di nome, internamente diversa. L’idea della tuta impermeabile non è cattiva, però. Dovrò consultare i miei calepini con le note, e poi vedere come proseguire.
Mangio sempre Bircher Müesli con dello yogurt per colazione, ma lo yogurt era terminato. Allora, oggi, per la prima volta da chissà quanto tempo: pane tostato fresco dal congelatore, burro e la marmellata di arance amare che avevo comperato due o tre mesi fa. Mi piace, da quando con Ruth un’estate eravamo andati in vacanza in Galles. È ancora buona. Sembra essere domenica e questo gusto di colazione inglese, insieme al caffè è imbattibile.




Volevo riprendere a leggere il libro di Urs Leisibach nel pomeriggio, ma l’avevo già in mano durante la colazione. Ieri avevo letto poche pagine, mi sembrava che Saufutter stesse parlando di me. Ovvio, non è vero, non è la mia storia questa, ma... ecco di nuovo quell‘aquila. Pare che si sia annidata qui, che abbia deciso di stare con me. Il guardiano della montagna delle macerie crollate. Gli dovrò procurare da mangiare.



Saufutter

Erano le 5 di mattina quando la donna che dovevo chiamare mamma entrava nella mia cella in cantina, nella quale mi avevano buttato dei sacchi e delle vecchie coperte militari per dormirci sopra e per coprirmi. Non ho mai avuto un letto durante i quattro anni in cui vivevo da loro. Mi buttava in faccia una tazza di acqua fredda e mi ordinava di alzarmi e di smistare la stalla. Da quel momento, fino a sera inoltrata, non cessavo di lavorare. Du bist nichts, du wirst nichts und Du kriegst nichts. Non sei niente, niente sarai e niente riceverai.
Mi dovevo alzare subito, andare nella stalla, lavarmi con l‘acqua fredda e vestirmi. Avevo un asciugamano, ma non sarebbe mai stato lavato, se io alle volte non l‘avessi immerso nel pozzo di nascosto, in estate. Due fette di pane mi aspettavano per colazione, dovevo mangiarle nel mio angolo nella stalla, dove avevo due cassette di legno per me, una per sedermi, e l’altra per mangiarci. Ero felice se il tempo era più mite, ma quando faceva freddo era brutale.

Non avevo altri vestiti che quelli che avevo addosso e nei quali dormivo. Il freddo e la fame erano i miei nemici più cattivi e ‚mamma‘ era la direttrice, che orchestrava tutta questa sinfonia di orrori . Gli animali erano i miei amici.
Sembravano essere contenti quando arrivavo in stalla, mi salutavano come li salutavo io e in inverno, quando nessuno mi poteva vedere, quando potevo abbracciavo le mucche e le capre, per farmi dare da loro un po‘ del loro calore. Alle volte, quando dormivo ‚mamma' veniva da me, in cantina. Si sdraiava vicina a me, ero anche contento, perché mi scaldava un po’. Mi ordinava di toccarle il seno e di mettere la mano nello stagno caldo che aveva fra le gambe. Alle volte lei toccava il mio pistolino.
Cominciava a respirare forte e ad un certo punto mugghiava così forte che dovevo pensare a Maria, la mia mucca preferita, quando non era stata munta per troppo tempo e le faceva male la poppa. Poi ‚mamma‘ si alzava dalle mie coperte. Prima di uscire diceva che se avessi detto solo una parola sull‘accaduto, mi avrebbe dato da mangiare ai maiali e nessuno mi avrebbe potuto mai più trovare.


Avevo otto anni, quando Hans und Rosemarie Seiler mi comperarono durante un‘asta davanti all'orfanotrofio Paradies. Eravamo in venti bambini. Nei giorni prima dell’asta le suore ci hanno dato più del solito da mangiare e ci hanno ordinato di avere uno ‚sguardo dolce e laborioso‘ quando i contadini delle lande intorno sarebbero venuti ad ispezionarci. Io sono stato comperato subito da Hans e Rosemarie. È stata lei a scegliermi. Una volta che avevano deciso per me, dovevo aspettarli fuori, finché loro avevano riempito le carte con gli ufficiali dell'armata per la salvezza. Poi sono dovuto salire sul trattore e siamo partiti. Credevo che finalmente sarei stato libero, che adesso la vita sarebbe stata più bella dato che avevo una mamma e un papà. Ma mi stavo sbagliando.



Di nuovo, dopo poche pagine, mi sono dovuto fermare. Questa volta non piangevo, ma le parole lette me le sarei portate appresso per tutto il resto della giornata.


Ore 16:55

Non posso fare altro che pensare a Urs Leisibach e al suo racconto. Chissà perché l’ha mandato proprio a me, dopo tutti questi anni. Forse perché lui ha sentito che siamo fratelli. Dev’essere una persona sensibile, non come me. Siamo tutti e due orfani, lui sapeva di esserlo e sentiva una vicinanza fra di noi. Io allora non avevo la minima idea di essere stato orfano. Ma lui l'ha capito.

Due inizi di vita simili, privati tutti e due dei propri genitori e gettati in un mondo apocalittico. Solo che lui ha attraversato l’inferno dell’orfanotrofio e di questi genitori che l’hanno comperato come schiavo. Io invece sono il fratello fortunato. Sono stato salvato dai miei genitori che mi hanno fatto crescere e andare a scuola, mi hanno dato da mangiare e da dormire. È tutta fortuna. Io avrei potuto essere al suo posto, avrei potuto essere io quello che doveva abbracciare le vacche per ricevere un briciolo di calore in questo immane mondo gelido. E lui avrebbe potuto essere al mio posto e giocare con Daniel. Avrebbe ricevuto da mangiare, da dormire, avrebbe potuto andare a scuola e avrebbe dovuto lui fare i conti con un padre che teneva la contabilità delle botte come un impiegato dell’ufficio delle tassazioni. E io avrei dormito in cantina e lavorato duramente dalla mattina presto alla sera. Siamo fratelli. Tutti e due all’inizio delle nostre vite abbiamo perso tutto.
Lui ha continuato a perdere, fino a questo momento in cui è riuscito a scrivere. Fratelli.
Adesso capisco perché l’ho abbracciato, davanti a tutti, dieci anni fa.


Ore 20:30

A letto. Secondo la luce è ancora giorno, ma dentro di me è notte fonda. Un buio fitto mi riempie, invece i miei pensieri sono attivi, vagano nei ricordi. Vedo la faccia laboriosa di mia mamma, durante le vacanze in Engadina che mi fascia il ginocchio dopo che me lo sono ferito gravemente cadendo sulle rocce, durante la discesa a piedi verso Sils Maria. Daniel era corso in avanti, e io ho cercato di raggiungerlo, ma le mie gambe erano ancora troppo corte e troppo scoordinate per un sentiero in discesa. Sento ancora mio padre che con il dito alzato dice che come tutto anche i dolori ci vengono mandati dal nostro Signore per farci crescere e per fortificarci. Avrò avuto cinque anni e mi ricordo della grande paura che mi aveva fatto questa frase, il terrore di quel Nostro Signore senza volto e senza corpo, che si divertiva a provocare forti dolori nei ginocchi dei bambini. Cercando di rivedere questo ricordo, mi accorgo del distacco di mio padre, una distanza non fisica, ma interiore, come se il ginocchio sanguinante di suo figlio non lo toccasse. Oppure, penso oggi, forse avrebbe potuto toccarlo, ma non era capace di gestire il sentimento empatico per suo figlio ferito e l’unica maniera di esprimere la sua compassione, il suo Mitleid, è stato quello di mascherarsi dietro le frasi preconfezionate. Così facendo, indirettamente ha indotto paura e terrore in suo figlio. Suo figlio, per così dire. Giocando il ruolo del padre. Perché padre non era. Ma padre è diventato.