Le 06:06. Sono stato efficace stamane, è molto meglio in bici senza colazione. Due bicchieri d'acqua, e via! Le 06:06. Chissà cosa dicono sul mio angelo custode, per quest'orario. Devo guardare dopo.
Per la prima volta un'ora intera. Non sono il problema i muscoli, ma devo far qualcosa contro la noia sulla bicicletta. C‘è una ragione perché le versioni moderne di queste bici hanno montato uno schermo sul manubrio. Chissà cosa guardano poi, uomini e donne, sui loro schermi, pedalando. Se avessi saputo cosa mi sarei dovuto aspettare in quella clinica, non avrei mai accompagnato Ruth. Stare seduto in quella sala d’attesa, con la testa rossa, con le gambe rammollite e con quel sentimento di squallore e di tristezza senza fondo. Troppo vuoto anche per prendere in mano una di quelle riviste indicibili, Gala, I Grandi Viaggi o come si chiamano tutte quelle croste dell‘intelletto umano. Proprio in quel momento di vergogna abissale, con quel gusto di colpa in bocca e di saliva amara, il dottore esce dal suo studio e mi chiama. Signor Traugott, venga pure! Parole che pronunciava mille volte all’anno, dopo un‘ultima occhiata sull‘incarto per non chiamare un nome sbagliato. Rivolgendosi a uomini che, pieni di resistenze disperate e osservati da un mocio dai capelli lunghi colore grigio ratto, avevano appena versato le loro lacrime bianche in un vetro che misura i millilitri con precisione. Quell’alzarmi dalla sedia... non sapevo neanche dove guardare. Lui sapeva che sette minuti prima mi ero masturbato nello sgabuzzino senza finestra, e io sapevo che lui sapeva. Quel luogo anonimo, interfaccia tra una fecondazione eseguita come atto d'amore e quella clinica di una fecondazione artificiale. Il seme è sempre lo stesso, ma le intenzioni e l'atto estremamente diversi. Come guardi in faccia un uomo che ti ha appena umiliato e che ha in mano tutte le carte per farti fuori definitivamente? Credo di non aver mai sentito una vergogna del genere, a parte forse quella volta che a tredici anni osservavo la mamma riempire la lavatrice mentre esaminava il mio lenzuolo con una precisione insopportabile.
Poi quel sorriso dello psicologo quando entravo nello studio e la faccia di Ruth, si vedeva che aveva pianto. Avrei voluto sparire dalla faccia della Terra, esattamente in quel momento, ed esattamente fino alla fine dei tempi. Quel sedermi vicino a lei, avrei voluto prendere la sua mano, ma ero immobilizzato, con quel mio corpo che l‘aveva appena tradita su prescrizione medica, su comando di tutti i presenti, lei inclusa. Io avrei potuto sempre difendermi dicendo che non avevo desiderato la donna di un altro, perché quella donna in quella rivista di sicuro non era di un altro, ma di tutti, cioè anche mia. Non mi sono mai sentito così solo, con addosso una colpa viscida irremovibile. Una solitudine schiacciante che mi ha annientato e che non ho più provato negli anni a venire, malgrado fossi più solo che in quel preciso momento.
Questi primi esami vanno molto veloce, Traugott: si contano gli spermatozoi freschi sotto il microscopio e si esamina la loro mobilità. Non capivo se ci si aspettava una risposta mia, non capivo questa lunga pausa. Dovevo dire qualcosa? Dovevo sorridere affermando? Forse quello è stato l‘ultimo momento della mia vita in cui avrei potuto uscire ed assaporare finalmente la mia libertà. La sentenza non era ancora stata pronunciata e fino a quel punto gli imputati in tutto il mondo sono ancora innocenti e liberi. Forse questo rappresentava la pausa: la mia ultima possibilità di uscire indenne da tutto quanto, per ricostruirmi una vita nuova, spensierata, colma di un futuro indipendente e fiducioso. I suoi spermatozoi, Traugott, sono troppo pochi. E quei pochi che ci sono, sono immobili. Lei non potrà procreare.Tutti questi occhi su di me, e io che cercavo di non crollare. Prima tutta la forza vitale strappatami dai miei lombi per i controlli, e adesso questo colpo letale. Sono troppo pochi e quelli che ci sono sono immobili. Non posso procreare. La sentenza di morte dalla bocca del dottore. Sono geneticamente morto. Lo psicologo mi chiedeva Come si sente adesso? E io, invece di spaccargli la faccia con un colpo deciso, sorridevo e mi alzavo. Quanto sarò stato lì, in piedi, senza aprire bocca? Poi Ruth mi prendeva per mano e mi guidava verso la porta. Senza dire una parola siamo scesi per le scale fino al Tiefgarage. Guido io, Traugott. Le sue uniche parole in quella giornata di cui mi ricordo.
Ho preso freddo. Interrotta la pedalata al minuto dodici. Non mi sono neanche accorto che non ho più pedalato da venti minuti. Dovrò terminare l‘ora stanotte. Non posso sgarrare. Queste lacrime, da dove arrivano? Gratta un po' la gola.
Forse Ruth sapeva già la verità da tempo, ma aveva bisogno una conferma medica per poter preparare la sua partenza. Ero stato io l‘unico che per tutti questi anni aveva viaggiato su un binario completamente sbagliato. Tutte le colpe a lei. Non poteva essere differentemente. Sarebbe stato totalmente fuori dalla mia concezione.
Tre anni è stata ancora con me. Tre anni con uno Zombie. Con un morto che si credeva vivo. O con un vivo che si sentiva morto. Poi, quella domenica mattina soleggiata in aprile, andata. Uscita dalla porta, senza una parola. Cosa avrebbe potuto dire?