Traugott, giorno
30:
Silenzio totale
Tutto è cambiato. Io sono un altro. È cambiato il segno. Fino all’altro ieri avevo vissuto 1'000, ma oggi realizzo che in verità ho vissuto -(1'000).
Io sono un altro. Quante volte me lo sono detto da quando ho aperto quella busta? Sembrano due vite simili, ma la loro differenza è di 2'000.
Non sarei mai più dovuto tornare in quella cantina. Voler mettere in ordine. Facevo fatica a scendere le scale, con quel ginocchio che con ogni movimento manda scosse dolorose attraverso tutto il corpo; a ogni passo sentivo ancora la debolezza della malattia appena passata, le gambe che mi reggevano appena, tremavano come per una premonizione. Forse qualcosa in me sapeva che mi aspettava un che di orribile?
Con la torcia in mano sono arrivato in cantina, per un momento pensavo di tornare sul luogo di un delitto. Tutto era come l‘avevo lasciato alcuni giorni prima, vedevo la striscia di sangue della mia mano sul muro ruvido, la mensola per terra rotta, con alcuni libri, carte, e la statuetta di Huldrych Zwingli che mio padre aveva regalato a mia mamma per il cinquantesimo compleanno andata in mille pezzi. Della piccola pozzanghera era rimasto solo un alone bianco che sprigionava un leggero odore pungente.
Con grande fatica ho alzato la cassetta di famiglia, quella cassetta che è rimasta con me, dopo che Daniel se ne era andato, e che con la mia caduta, nel tentativo di aggrapparmi a qualsiasi cosa per non cadere, ho buttato per terra insieme alla mensola. Con il colpo si è spaccata la serratura, il coperchio si è spalancato. La chiave era ormai persa da tempo, ma ero comunque riuscito ad aprirla una volta e avevo visto i documenti, lettere dei miei genitori, contratti, cose passate. Ieri, in cantina, alzandola e cercando di metterla a posto, ho visto che vi era una specie di tasca di pelle, un reparto separato attaccato alla parete interna sul retro. All'interno ho trovato la lettera sigillata su cui spiccava il mio nome scritto con la calligrafia di mio padre, come se fossi io il destinatario. E difatti lo ero. Lo sono. Da quella tasca l‘altro giorno dev‘essere caduta fuori anche la busta con il certificato di nascita di Ernst Wilhelm Blumer, e la foto.
Ho aperto la lettera ancora in cantina, e ho iniziato a leggerla sul posto, in piedi, con la torcia. mi ha colpito un fulmine. Ero morto sul colpo. Rimasto di pietra. Una colonna di sale. Carbonizzato in un lampo.
Poi niente. Silenzio totale. È passato un minuto? Un‘ora? Un giorno? Un mese? Una vita? L’eternità?
Con infinita lentezza sono crollato. Un‘esplosione all‘indietro, un‘implosione rallentata di mille anni.
Quando sono tornato in me, seduto sulle scale, ero un altro. Ero Ernst Wilhelm Blumer, ero io il bebè in braccio a quella donna e quella donna non era la mia mamma, ma l‘infermiera di un asilo per orfani. Ero io, nato fra bombe e distruzione, frutto di una notte d‘amore fra due persone a me sconosciute nel mezzo di allarmi aerei e terrore della guerra. Ero io, seme di un padre caduto poco dopo il mio concepimento. Ero io, uscito dal ventre di una donna che poco dopo è morta. Morta per colpa mia? Ero io Ernst Wilhelm Blumer. Nato a Bochum, in Germania. Per settantacinque anni avevo creduto a tutta una finzione. Per settantacinque anni sono stato un altro. Per settantacinque anni avevo sbagliato tutto. Posto. Nome. Genitori. Paese. Soltanto il mio compleanno l’avevo festeggiato nel giorno giusto. Unico rimasuglio di verità in un universo parallelo, costruito su un‘unica bugia iniziale, da un big bang sbagliato, da una bugia che a tutto questo universo cambia il segno. Non è più (infinito). È -(infinito).
Se è come Heisenberg dice che il posto dipende da chi lo osserve, adesso quel posto sarebbe stato del tutto diverso perché era una persona diversa che stava per entrarci.
Non sono svizzero. Non sono di Winterthur. Non sono figlio di Ruedi e di Sofie. Non conosco i miei nonni. Non conosco i miei genitori. Non ho figli. Non ho una donna. E vuoi che non inizio ogni frase con Non?
Non sono.
Non sono.
Non sono.
Non sono neanche
Traugott.