Traugott

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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Traugott, giorno 31:


L'abisso





Aprire la porta della cantina e rientrare nel mio appartamento era come ritornare in un posto familiare, ma devastato. Tutto era frantumato, dai cocci la luce che si propagava veniva spezzata in mille prismi che ne rivelavano lo spettro, manifestando allo spettatore la sua vera natura fino a quel momento celata.
Abbagliato da questi colori mai visti e dalle oscillazioni di frequenze finora nascoste dietro le superfici di questo mondo apparente, accompagnati da un insistente tintinnio ad una alta e inaudita frequenza come lo squittio di un ratto insediatosi nell'orecchio sinistro, una vertigine mi afferrava e avevo una totale urgenza di lasciarmi cadere nella mia poltrona in sala, prima di precipitare in un‘atroce forra che sapevo essere l‘inferno annunciatomi dall‘inizio dei miei ricordi e oltre.
Dopo una straziante caduta che sembrava durare decenni e durante la quale nonostante le mie urla reggeva un silenzio nero e crescente, l’impatto del mio corpo terrorizzato sul suolo roccioso era solo l‘inizio di mille torture inflittemi da bestie dall'apparenza umana.
Dal lastrone della montagna usciva una donna in abito nero e iniziava a camminare verso di me. Quando riconobbi mia madre il cuor mi si alleggerì, aprii le braccia per stringerla, ma abbracciandola mi travolse il fetore agghiacciante di cadavere, la spinsi via e solo allora potei vedere la sua dolce faccia senza pelle, senza carne, soltanto il teschio era rimasto, ma quel teschio era vivo, era vivo e mi parlava, chiamava il mio nome, ma non chiamava Traugott, chiamava Ernst Wilhelm! Ernst Wilhelm!


Dalla rupe ero caduto in una valle strettissima, un piccolo ruscello saltellava verso l‘invisibile mare.
Da quella direzione un uomo saliva, anche da lontano riconoscevo subito la figura magra e alta, era mio padre che si avvicinava. In mano aveva una verga grande quanto lui e con i suoi passi lunghi e decisi presto mi raggiunse. Stava pregando e con due colpi di sferza prima scacciava mia madre, poi ordinava a me di denudarmi e di lasciarmi cadere a pancia in giù, sopra il tronco di un albero nero, apparentemente rovinato dal colpo di un fulmine. Con velocità e forza sovrumana la bacchetta colpiva la mia schiena e lacerava la pelle per liberare carne e sangue. Un lamento inaudito usciva dalla mia bocca, un secondo colpo flagellava la mia schiena e l‘impatto delle mie urla sulle pareti rocciose provocava delle profonde fessure. Colpo dopo colpo la frusta tagliava profondamente la carne della mia schiena e del mio sedere e la voce di mio padre continuava a ripetere Con ogni colpo ti faccio del bene perché ti tolgo la colpa che hai caricato su di te. Colpo e colpa sono la stessa parola, il sangue tuo non è niente a confronto del sangue di Dio. Sono dei regali per farti tornare sulla retta via, e di nuovo la sferza cadeva sulla mia schiena ormai liberata da tutta la pelle. Ad un certo punto si fermò. Sentivo il suo respiro pesante. Il grido bestiale che emisi quando sentii spezzarsi il mio ano fece crollare le pareti intorno a noi. Con un boato smisurato collassavano tutte le montagne e ci piombavano addosso. I colpi delle rocce fredde sul mio corpo mi facevano bene, venivo schiacciato ucciso spiattellato, ma non trafitto al cuore da una mano umana. Miliardi di anni di rocce sopra di me.

Un feto senza pelle, solo tenera carne e ossa come lische cartilaginee di pesce preistorico. Il pianto della madre che l'aveva appena partorito, e che veniva portata via per essere uccisa, il feto abbandonato sotto le macerie.
La colpa.
Quando sentivo questa parola uscire dalla mia bocca mi rendevo conto che esiste esiste esiste la possibilità di muovere queste macerie, a costo di farsi mangiare il fegato ogni sera dall‘aquila che stava aspettando in cima all‘unica roccia rimasta eretta.
Il feto era vivo, il sangue pulsava nelle sue minuscole arterie, gli occhi anche se ancora chiusi vedevano oltre l‘immaginario. Vedevano che la mamma fra un attimo lo avrebbe abbandonato per sposare la morte, vedevano il papà in quello stesso momento ucciso da una pallottola che gli svuotava la testa. Gli organi pulsavano sotto un‘invisibile membrana, il cuore, la bocca di un girino che ripeteva ripeteva ripeteva per dar vita dar vita dar vita.

Con la saliva che cola da un angolo della mia bocca e gocciola in lunghi fili sul maglione marrone mi sveglio. Il braccio destro penda, mentre la mano sinistra è appoggiata sul bracciolo della poltrona, stringendo forte la lettera e la busta con il sigillo rotto, spiegazzandone le fibre che per settantaquattro anni mi hanno aspettato nel loro posto segreto. Il ratto ha mangiato via tutti i rimasugli appoggiati e appesi nella cavità cranica, adesso scappa e abbandona il suo nido lasciando un candido vuoto nella testa, un vuoto leggero su un corpo torturato e infinitamente pesante.