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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Giorgia, giorno 30


Papere



Caro Quaderno Giallo,

hanno telefonato dalla casa per anziani. Mia madre si è ammalata. Non possono ancora dire nulla di preciso. Ho letto che in questo periodo molti anziani anche nei luoghi chiusi e protetti hanno contratto il virus e sono morti. Ho chiesto se potevo parlare con lei, mi hanno risposto che al momento era isolata per degli esami e che era meglio chiamassi il giorno seguente. E soprattutto di non allarmarmi. Poteva essere una semplice influenza ma dovevano essere cauti. Ho chiesto loro di lasciarle il bambolotto Gustavo. Almeno lui può tenerle compagnia.

Questa notizia mi ha spiazzato. La credevo al sicuro. Di cosa mi preoccupo? È così agguerrita che se il virus passa è capace di morderlo. Ho sentito una profonda tenerezza salire dal mio corpo. Chi è mia madre? Non l'ho mai saputo. Quando è morta nonna Adelina io piangevo in modo inconsolabile. A lei sono venute due rughe forti, verticali fra la fine del setto nasale e la fronte, come se, con forza inaudita, volesse trattenere le lacrime e il dolore proprio lì e non lasciarli più uscire. Però ricordo che l'ho vista improvvisamente invecchiata. O forse era già vecchia e io non me ne sono accorta. Mi rendo conto che ho sempre guardato mia madre come una madre e mai come una persona. Tantomeno una donna.


Come sarà stata da bambina? E da ragazza? Quali sogni avrà avuto? Sarà stata Felice?

Non so rispondere a nessuna domanda. L'unica certezza era il suo amore per il fratello Gustavo. E ora è tardi per scoprire qualche altra cosa. Lei non ricorda. E se avesse contratto il virus sarebbe comunque troppo tardi anche solo per guardarla per un'ultima volta negli occhi. L'ho mai fatto veramente? Con amore?

Mi ritrovo a piangere e non so se è per lei. O per me. O per tutto il genere umano.


Non posso far nulla. Soltanto sciogliermi lentamente nella salinità delle lacrime e attendere che passi. Passi il giorno. E la notte. Fino a domani. Mentre lei ignara abbraccia il bambolotto Gustavo come abbracciava suo fratello e si senta appagata. Non chiede altro. Non vuole altro. E io dovrei finalmente accettare che quella realtà la rende felice e a mia volta esserne felice. Che importa quale sia il soggetto della sua tenerezza, un cane, un bambino, un canarino, un uomo, un fiore, devo essere grata di poterla vedere gioire. Chi sono io per pretendere di essere il fine ultimo del suo amore? Mi ha portata in grembo, mi ha cresciuta nell’unico modo di cui era capace. Non c’è una scuola per genitori. L’insegnamento è orale e si iscrive nel corpo e nel gesto e si tramanda da madre in figlia.


Nella mia famiglia sono state le donne a decidere. E chi decide sbaglia. Le madri vedono i propri figli come prolungamenti di loro stesse, perché sono carne della propria carne. E instillano la loro volontà e versano nel loro destino i sogni e desideri che non hanno potuto realizzare. Vorrebbero la bella copia di loro stesse e non il prototipo di un nuovo essere umano indipendente. E combinano disastri con l’intenzione di far loro del bene.

I figli devono agire come i genitori e allora ne scelgono uno che diventa il modello da seguire. Perché malgrado ci siamo chiamati con supponenza homo sapiens restiamo delle papere blateranti che seguono la prima cosa che si muove e la imitiamo in tutto e per tutto. Così riusciamo a sopravvivere e nel bene e nel male. E facendo del male crediamo di fare del bene.

Jean-Paul Sarte diceva l’inferno sono gli altri. Magari, invece, l’inferno siamo noi.