Giorgia, giorno 29:
Limbo
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Caro Quaderno Giallo,
la cura del sonno mi aveva riportato alla normalità. Avevo compiuto gli stessi passi di mia madre. Ero stata ricoverata in una clinica per pazzi e ne ero uscita. Ricordo vagamente la sua decisione di farmi ricoverare perché ero diventata apatica e mi lasciavo andare. Non mangiavo. Non dormivo. Restavo chiusa nella mia camera E non ne volevo più uscire. Avevo abbandonato la scuola. Uno psicologo mi seguiva, ma era uno di quelli che preferiva trovare la giusta pozione soporifera per sedarti, piuttosto che scandagliarti l’anima. Non mi importava. Non mi importava più nulla.
Dopo un lungo periodo post malattia avevo compiuto 18 anni ed ero diventata maggiorenne. Non me ne poteva fregare di meno. I miei mi avevano consegnato un libretto bancario con una cospicua somma che avrei potuto spendere a mio piacimento. Avevano risparmiato quei soldi da quando ero nata, ma a me quel gesto non fece né caldo né freddo. Mi ero cercata un lavoro. Grazie a un suggerimento di mio padre ero stata assunta in una cartoleria del centro, come ragazza tuttofare in ufficio. Il lavoro era il riempitivo delle mie giornate che trascorrevano senza alcun entusiasmo. Il rapporto con mia madre si era alquanto raffreddato. Anche con mio padre, che ne soffriva, ma cercava di non darlo a vedere. Prendevo i medicamenti che mi tenevano l’umore alto, ma dentro tutto era morto. Mi ero trincerata dietro un muro insormontabile e ne negavo l'accesso.
Dopo due anni la luce iniziò a far capolino fra le macerie nere della mia vita. Il respiro riprese il suo ritmo naturale e potei nuovamente ridere della mia goffaggine e sorridere di quella altrui. Nel frattempo una giraffa in minigonna, assunta dopo di me, ricevette un aumento salariale e il titolo di capo ufficio. Mi licenziai e venni assunta in un negozio di sport. Mi occupavo dell’ufficio, delle ordinazioni, della corrispondenza. Il mio trantran non era cambiato, ma avevo smesso di prendere quelle pillole che mi avevano fatta ingrassare. Mi sentivo più sicura e avevo iniziato a uscire. La mia grande conquista era andare in un bar a bere l'aperitivo da sola, nascosta dietro a un libro. Era il periodo in cui vedevo gli animali dietro a ogni persona. Il maiale che sedeva al banco con cinture di ciccia che strabordavano fuori dai pantaloni, la pantera dagli occhi bistrattati con ciglia finte che ancheggiava dietro al bancone, la garrula fringuella che sparlava di ogni cliente che usciva, lo stallone ricoperto di pelle e con a cicca in bocca che metteva ogni due secondi la mano lì, a controllare che ci fosse ancora. E io mi sentivo come da bambina il coniglio sempre sulla difensiva.
Sul nuovo posto di lavoro conobbi Ubaldo, faceva il rappresentante di articoli sportivi per diverse ditte e spesso arrivava a farci visita. Aveva l'andatura dinnocolata da leone sazio e una criniera grigio perla. Da uno con un nome così avrei dovuto stare alla larga. Mi prendeva bonariamente in giro e mi faceva arrossire. Erano passati tre anni dalla mia storia con Eros e quando cominciò a farmi la ronda pensai che era forse il deterrente giusto per fare il gran salto. In realtà io gli interessavo solo perché quando compiva il suo giro di rappresentanza poteva pernottare nel mio appartamento, mangiare e bere a sbafo. Sei mesi di catastrofe annunciata. Quando mi piantò in asso per un appartamento migliore cominciò a sparlare di me e a raccontare agli altri i fatti miei. Le risatine, le occhiatacce, certo nomignoli che usavamo nella nostra intimità divennero di dominio pubblico e non sopportando quelle ostilità mi licenziai. Trovai lavoro in un negozio di scarpe e decisi di prendere da privatista il diploma di commercio. Mi innamorai perdutamente dell’insegnante di contabilità, gioviale, ironico, sensibile e molto attraente. Raffaele. Un esemplare di cervo aitante con occhi da cerbiatto. Ogni alunna pendeva dalle sue labbra. Lui si accontentava di quel bagno di ammirazione femminile e se ne infischiava di tutte. Escluse quelle carine, nei giusti posti tonde e tonte. Per me ebbe un particolare interesse quando vide che leggevo Gogol in una pausa.
Era anche lui un accanito lettore e mi svelò che avrebbe voluto studiare letteratura, ma la sua facilità per i numeri lo aveva spinto altrove. Ci scambiavamo titoli, suggerimenti, edizioni speciali e poi iniziammo a passarci i libri. Uscimmo un paio di volte a cena, ma io ero paralizzata dalla paura. Lui si sentiva a suo agio con me, parlava, parlava, parlava. Mi diceva che ero una brava ragazza, intelligente, una vera ascoltatrice. Ma nulla più. Dopo il mio diploma ci sentimmo ancora, poi tutto finì in una bolla di sapone. A 29 anni venni assunta in un ufficio fiduciario e mi ci posteggiai per venticinque anni. In quella prima estate nel tearoom dove pranzavo incontrai Paolo. L'uomo grigio beige comico come un pinguino grigio beige.
Come potrei riassumere la mia vita in una parola?
Un limbo. Surreale.
Sospeso a due metri da terra.
Da quassù tutto osservo, ma non scendo a farne parte.
la cura del sonno mi aveva riportato alla normalità. Avevo compiuto gli stessi passi di mia madre. Ero stata ricoverata in una clinica per pazzi e ne ero uscita. Ricordo vagamente la sua decisione di farmi ricoverare perché ero diventata apatica e mi lasciavo andare. Non mangiavo. Non dormivo. Restavo chiusa nella mia camera E non ne volevo più uscire. Avevo abbandonato la scuola. Uno psicologo mi seguiva, ma era uno di quelli che preferiva trovare la giusta pozione soporifera per sedarti, piuttosto che scandagliarti l’anima. Non mi importava. Non mi importava più nulla.
Dopo un lungo periodo post malattia avevo compiuto 18 anni ed ero diventata maggiorenne. Non me ne poteva fregare di meno. I miei mi avevano consegnato un libretto bancario con una cospicua somma che avrei potuto spendere a mio piacimento. Avevano risparmiato quei soldi da quando ero nata, ma a me quel gesto non fece né caldo né freddo. Mi ero cercata un lavoro. Grazie a un suggerimento di mio padre ero stata assunta in una cartoleria del centro, come ragazza tuttofare in ufficio. Il lavoro era il riempitivo delle mie giornate che trascorrevano senza alcun entusiasmo. Il rapporto con mia madre si era alquanto raffreddato. Anche con mio padre, che ne soffriva, ma cercava di non darlo a vedere. Prendevo i medicamenti che mi tenevano l’umore alto, ma dentro tutto era morto. Mi ero trincerata dietro un muro insormontabile e ne negavo l'accesso.
Dopo due anni la luce iniziò a far capolino fra le macerie nere della mia vita. Il respiro riprese il suo ritmo naturale e potei nuovamente ridere della mia goffaggine e sorridere di quella altrui. Nel frattempo una giraffa in minigonna, assunta dopo di me, ricevette un aumento salariale e il titolo di capo ufficio. Mi licenziai e venni assunta in un negozio di sport. Mi occupavo dell’ufficio, delle ordinazioni, della corrispondenza. Il mio trantran non era cambiato, ma avevo smesso di prendere quelle pillole che mi avevano fatta ingrassare. Mi sentivo più sicura e avevo iniziato a uscire. La mia grande conquista era andare in un bar a bere l'aperitivo da sola, nascosta dietro a un libro. Era il periodo in cui vedevo gli animali dietro a ogni persona. Il maiale che sedeva al banco con cinture di ciccia che strabordavano fuori dai pantaloni, la pantera dagli occhi bistrattati con ciglia finte che ancheggiava dietro al bancone, la garrula fringuella che sparlava di ogni cliente che usciva, lo stallone ricoperto di pelle e con a cicca in bocca che metteva ogni due secondi la mano lì, a controllare che ci fosse ancora. E io mi sentivo come da bambina il coniglio sempre sulla difensiva.
Sul nuovo posto di lavoro conobbi Ubaldo, faceva il rappresentante di articoli sportivi per diverse ditte e spesso arrivava a farci visita. Aveva l'andatura dinnocolata da leone sazio e una criniera grigio perla. Da uno con un nome così avrei dovuto stare alla larga. Mi prendeva bonariamente in giro e mi faceva arrossire. Erano passati tre anni dalla mia storia con Eros e quando cominciò a farmi la ronda pensai che era forse il deterrente giusto per fare il gran salto. In realtà io gli interessavo solo perché quando compiva il suo giro di rappresentanza poteva pernottare nel mio appartamento, mangiare e bere a sbafo. Sei mesi di catastrofe annunciata. Quando mi piantò in asso per un appartamento migliore cominciò a sparlare di me e a raccontare agli altri i fatti miei. Le risatine, le occhiatacce, certo nomignoli che usavamo nella nostra intimità divennero di dominio pubblico e non sopportando quelle ostilità mi licenziai. Trovai lavoro in un negozio di scarpe e decisi di prendere da privatista il diploma di commercio. Mi innamorai perdutamente dell’insegnante di contabilità, gioviale, ironico, sensibile e molto attraente. Raffaele. Un esemplare di cervo aitante con occhi da cerbiatto. Ogni alunna pendeva dalle sue labbra. Lui si accontentava di quel bagno di ammirazione femminile e se ne infischiava di tutte. Escluse quelle carine, nei giusti posti tonde e tonte. Per me ebbe un particolare interesse quando vide che leggevo Gogol in una pausa.
Era anche lui un accanito lettore e mi svelò che avrebbe voluto studiare letteratura, ma la sua facilità per i numeri lo aveva spinto altrove. Ci scambiavamo titoli, suggerimenti, edizioni speciali e poi iniziammo a passarci i libri. Uscimmo un paio di volte a cena, ma io ero paralizzata dalla paura. Lui si sentiva a suo agio con me, parlava, parlava, parlava. Mi diceva che ero una brava ragazza, intelligente, una vera ascoltatrice. Ma nulla più. Dopo il mio diploma ci sentimmo ancora, poi tutto finì in una bolla di sapone. A 29 anni venni assunta in un ufficio fiduciario e mi ci posteggiai per venticinque anni. In quella prima estate nel tearoom dove pranzavo incontrai Paolo. L'uomo grigio beige comico come un pinguino grigio beige.
Come potrei riassumere la mia vita in una parola?
Un limbo. Surreale.
Sospeso a due metri da terra.
Da quassù tutto osservo, ma non scendo a farne parte.