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Mark

︎Totentanz
la quarantena

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Mark

Giorgia, giorno 26


Al macello



Lei mi aveva circuita e attirata. Il mio ferro aveva aderito alla sua calamita. Ero salita sul treno agli inizi di dicembre convinta che fosse l'unica cosa da fare. Mi ero messa al finestrino. Guardavo sfilare le immagini come avevo visto sfilare la mia vita in quel periodo. Non le potevi bloccare su un fotogramma. Potevi estrapolarne una dalla tua mente ma restava rigida e unica come uno straccio troppo inamidato. Poi si involava a rimettersi al suo giusto posto nella sequela di accadimenti. Io guardavo me che vivevo e non riuscivo a far nulla per fermare il corso di quel destino annunciato. Annunciato da mia madre. Lei sapeva dove portarmi. Non ero la prima e non sarei stata l'ultima. La via non la ricordo, ma la città era Milano.


Dalla stazione mi trascinò su un taxi e poi su per quelle scale squallide. Lei faceva tutto al posto mio. Suonava, salutava, sussurrava, annuiva, mi indicava. Pagava in anticipo il pattuito. L'odore era inequivocabile. Disinfettante misto ad aglio fritto e fumo. Io sedevo su una sedia sgangherata. Alla parete una stampa ricamata con una fontana e alcuni personaggi. Brutta da morire. Ma quella era l'anticamera della morte.


Io ero vacua e non capivo cosa si volesse togliermi. Tutto era crollato così in fretta per cui mi sentivo come se le ossa e la polpa fossero sprofondate ai miei piedi a mo' di zavorra. Ero come una borsa da spesa vuota da portare in giro. Veniva prima o poi l'occasione per usarla. Avevano deciso di usarmi. Volevano riempirmi con un aspiratore per fare pulizia di quel che restava attaccato alla mia pelle interna. Così dentro sarei stata pulita, raschiata, pronta per quando la zavorra fosse tornata al suo posto, edificando lo scheletro e a rimpolpandolo. Stavo zitta e ferma. Gli occhi abbassati per non rischiare di vedere il luogo di tortura.


Non avevo cognizione del tempo. La mia clessidra aveva la sabbia ferma e nessuno aveva pensato di girarla. Volevo farlo? Non volevo? Non m'importava più. Era come chiedere a un vegetariano se preferisse il pollo o il maiale. Tutto si era fatto buio e in quel buio non desideravo accendere la luce. Stavo in una impasse che almeno mi proteggeva dai ricordi. Non potevano mordermi perché non offrivo loro un bersaglio. Venne una donna senza volto. Mi fece entrare in una stanza male illuminata. Da sola. Meno vedevo meglio era. Mi fece spogliare e adagiare su un lettino ricoperto da una plastica lurida. Mi coprì con una copertina di cotone che odorava di muffa. Mi attaccò le gambe divaricate con delle cinghie per immobilizzarmi. Poi mi immobilizzò anche le braccia. Solo allora lui entrò. Un ometto piccolo con una barbetta a punta. Sembrava lo gnomo cattivo. Fece un cenno con la testa. A quel punto il mio corpo ebbe un'impennata. Quella posizione... quella vergogna... quell'impotenza dinnanzi al sopruso ... alla devastazione ... all'oltraggio... perché dovevo soccombere?


In due parole mi spiegò il procedimento. Mi avrebbe infilato una cannula collegata a un aspiratore, avrebbe aspirato e tutto sarebbe finito. Potevo tornare a casa subito. Mi avevano legato per sicurezza. Mise dei guanti che sembravano per pulire i pavimenti. O per macellare? Sul tavolino aveva diverse bacchette. Io a quel punto guardai il soffitto. Pregai solo che finisse in fretta. Cercava di aprirsi un varco. Mi faceva male. Come nella cantina di Alvaro. Perché? Si rilassi. Perché dovevo subire nuovamente un'aggressione? Si rilassi. Perché quella brutalità? PER FAVORE SI RILASSI!


Diventò rabbioso. Sbuffava e lavorava come un operaio da cantiere. Scavava nella mia carne un tunnel per lasciar passare la cannula. Non andava per il sottile. La donna gli passava gli strumenti spazientita per la cocciutaggine della mia vagina. Vedevo che tamponava il sangue causato dai suoi maltrattamenti, non per gentilezza, ma perché gli toglieva la visuale di quel buco ostinato. Finché dopo ulteriori maneggi e bestemmie riuscì ad attaccare la macchina.


Una deflagrazione interna.

Il vacuum risalì fino al cervello lo addentò e poi lo strappò verso il basso, ghermì il cuore travolgendo tutto al suo passaggio. Insieme al feto venne cavata anche la mia di vita. Un risucchio che tutto strappava fuori per estirparlo da quella fessura colpevole di aver provato piacere. Ero come una condannata alla sedia elettrica che resiste alla prima scarica. La donna prontamente mi mise uno straccio sulla bocca, una sordina per le mie urla.


Ora giaccio nel mio letto di casa. Il viaggio di ritorno è stato un supplizio. Ho dei dolori lancinanti al ventre. Ho delle perdite. Ho il circuito spento. Dormo. Veglio. Guardo il soffitto e la luce che si sposta. Fra cinque mesi avrò 18 anni e dovrei essere giovane e felice. Mi sento vecchia. Una matusalemme. Come se avessi provato tutto ciò che si può provare in una vita intera. Non ho aspettative. Non ho sogni. Non ho desideri.

Non sono io che ho avuto un aborto e mi sono sbarazzata di un feto. È il feto che durante l'aborto si è sbarazzato di me.