Nella mia vita ci sono stati tanti incidenti. Ma il primo non si scorda mai. Come il primo amore.
Quel pomeriggio di un mercoledì d'inizio aprile era un diffondersi di profumi e di un calore tiepido e benefico.
🎧 Flor
Indossavo il mio vestitino a fantasia floreale in cotone color fucsia e blu acceso. Aveva una fasciatura in vita a nido d'ape che me lo teneva aderente al corpo e così mi sentivo libera di muovermi. Avevo inforcato la mia trottinette rosso fuoco e facevo i giri sul marciapiede che delimitava il quartiere. Dal cancello alla curva del bar Chimera, risalita fino all'incrocio, svolta a destra e avanti lungo tutta la via, di nuovo a destra per poi raggiungere nuovamente il cancello. E via. Un rettangolo su cui potevo sfrecciare senza dover attraversare strade. Non c'era pericolo.
In quei giri senza principio e fine mi ero accaldata e persa come fanno i Sufi nelle loro danze. La mia infanzia era stata costellata da gioie e dolori, il rapporto con mia madre era vieppiù difficile perché non mi perdonava di essere così dissimile da lei. Inoltre si rifletteva su di me la stessa colpa che lei aveva agli occhi di sua madre. Unica e femmina. Suo fratello, il beniamino, era deceduto tre anni prima mentre lei era sopravvissuta. Come nella scelta di Sophie di William Stayron la nonna avrebbe sacrificato piuttosto la figlia che il figlio per l’ultima danza macabra. Per fortuna i bambini hanno dalla loro una forza primordiale che li conforta e li spinge a continuare e in caso di necessità possono magistralmente rifugiarsi nel loro mondo. Il mio mondo era costellato dai giochi che avevo imparato a costruirmi da sola per ovviare all’inconveniente che nella mia breve vita non avevo avuto molte amicizie. Ora avevo la mia amica Claire, la scuola e la mia trottinette. Con la gamba destra spingevo il mio mezzo e scivolavo sull’asfalto ed ero immersa in un tempo sospeso. E proprio allora i rapaci fiondarono su di me.
🎧 Aigle
Venni bruscamente risvegliata da Alvaro che mi chiudeva il passo davanti a casa sua. Era cresciuto e aveva un inizio di peluria sopra il labbro. Era da un po’ che non lo vedevo. Ciao coniglio. Mi fece i complimenti per il mio mezzo. Dopo i primi preamboli mi mise a parte di un suo segreto. Aveva dei criceti che teneva nascosti in cantina e ora andava a dar loro da mangiare. La mia vanagloria si accese per tanta considerazione da parte sua. Mi chiese se volevo vederli, ma dovevamo far piano perché se i suoi lo avessero scoperto sarebbe stato il finimondo. Posteggiai la mia trottinette e lo seguii. Scendemmo attraverso una porticina e degli scalini nel sottosuolo. Lui mi precedeva facendomi strada e con il dito sulla bocca mi faceva segno di non far rumore. La cantina era mal illuminata e vi era un forte odore di umidità. Percorremmo un corridoio impolverato ai cui lati vi erano delle porte chiuse. Io avevo paura dei ragni e delle ragnatele che fluttuavano e lo pedinavo da vicino. All'ultima porta ci fermammo e con un sorrisetto di giubilo Alvaro mi aprì e mi fece entrare. Io sottovoce chiesi dove sono? e sentì un'altra voce che dal fondo rispondeva sono qui coniglietta. Era Rocco. Il suo amico. Il suo aiutante. Poi la porta si chiuse con un tonfo.
Quando molto dopo riuscii a fuggire grazie a un morso alla mano di Rocco che mi soffocava e a un urlo lancinante che li spaventò, i loro artigli erano già penetrati nella mia carne profondamente e avevano lasciato laceranti segni. Si erano già divertiti nelle loro avanscoperte fatte sul mio corpo acerbo e nella loro violenza bieca si erano scambiati a turno il ruolo di aguzzino e semplice osservatore. Mi avevano gettata a terra e bloccata a turno per guardare e toccare qualcosa che io non sapevo neppure di possedere. Anche loro inesperti volevano quella cosa segreta e toccare con mano ciò che avevano visto solo su riviste proibite e di nascosto. Mi accecavano con una luce da cantiere e per farmi stare zitta mi premevano a turno la mano sulla bocca e ogni tanto mi davano dei pugni per acquietare i miei calci. Sentivo le loro sporche mani percorrermi e non capivo cosa avevo fatto per meritarmi quelle torture. Non esisteva nel mio vocabolario una parola per definire ciò che stava accadendomi. Dicevano delle schifezze per eccitarsi e mi insultavano come se fossi io quella che voleva quelle angherie.
🎧 Et exultavit
Io mi sentivo soffocare e mi sentivo crescere una forza dentro per la paura di morire. Sì, pensavo che mi avrebbero uccisa. Era come se il mio dimenarmi li divertisse mentre io sentivo centuplicarsi una forza che non avevo mai provato. Alla paura della morte reagivo con la voglia della vita.
Quando fuggii, prendendoli di sorpresa dopo il mio urlo che li aveva spiazzati, afferrai la trottinette ma non potei salirci sopra e pedalare. Sotto il vestito sporco non avevo nulla. La vergogna che qualcuno se ne accorgesse e il freddo che mi sentivo sotto alla gonna mi paralizzavano la fuga. E avevo perso una scarpa. Cosi camminai il più veloce possibile verso casa e sono sicura che fino al mio cancello non respirai. Si era inceppato, l’avevo dimenticato, era rimasto ingabbiato in quella cantina. Loro erano dall'altra parte del muretto e della ringhiera, nel giardino di Alvaro che mi aspettavano. Lui mi mostrò un piccolo serramanico. Fece un segno chiaro. Se avessi parlato mi avrebbe tagliato la gola. E io gli credetti. Restai immobile finché se ne andarono. Ora le gambe iniziarono a tremarmi. Mi sentivo un vuoto sacco sporco e dolorante. Le ultime connessioni del mio cervello mi obbligarono a premunirmi contro mia madre. Restai nascosta sulle scale finché lei uscì per alcune compere e i soliti pettegolezzi con la parrucchiera che aveva negozio vicino a casa. Nascosi il vestito, le calze e la scarpa solitaria nell'armadio poi feci la doccia più lunga della mia vita. Mi lavai, piansi, mi pulii, mi strofinai, piansi, piansi, mi lavai, mi sciacquai, mi odiai. Mi odiai.
🎧 Agua
Odiai quel corpo per il quale ero stata abusata. Odiai la mia faccia che con la crescita si era aggraziata. Odiai i miei capelli folti che erano stati strappati e usati per tenermi a terra. Così lucidi e lunghi da denunciare la mia femminilità. Odiai le mie braccia piene di lividi perché non mi avevano difeso dalle botte e dal sopruso. Odiai le mie gambe che non mi avevano aiutato a sprangare l’accesso alla mia purezza. Odiai il mio sesso per il quale ero dovuta soccombere all'ignominia e alla forzatura. Odiai il mio vestito che aveva reso buon gioco a quei due maiali. Odiai le mie mutande strappate che non si erano trasformate in cintura di castità ma avevano issato bandiera bianca. Odiai la mia curiosità che mi aveva fatto scendere in quella cantina. Odiai la mia trottinette perché era rossa. Come il sangue delle mie ferite. Faticavo a muovermi. Faticavo a camminare. Faticavo a respirare. Tutto il dolore si concentrava lì per farmi ricordare. Bruciava di disonore. Dalle viscere fin su nel cervello. Ero solo riuscita a salvare la mia verginità, ma la vergogna, quella famelica idra si era installata in ogni cellula del mio odiato corpo. Acqua e lacrime. Lacrime e acqua. Stessa materia all’apparenza. Le lacrime non si distinguevano dall’acqua, solo assaggiandole si sarebbe potuto sentire la salinità della mia disperazione. Acqua e lacrime scorrevano ora nello scolo e portavano via, lentamente, a una a una le gocce cristalline della mia innocenza e fanciullezza.